Dall’ultima Coaching Letter, è trascorso diverso tempo. Ho voluto aspettare i Vostri suggerimenti, le Vostre sollecitazioni, ho preferito fiutare nell’aria i “bisogni” e le “necessità” più diffuse, prima di riprendere il nostro filo diretto. E da allora, ho ricevuto tantissime riflessioni, testimonianze, richieste di sostegno. Curioso come sia sempre emerso un punto dolente in comune, che potrei definire: la distanza da se stessi. Come se ci fosse una difficoltà a ritrovarsi, ad accettarsi per ciò che si è e, di conseguenza, a capire dove si vuole andare.
“Il vero Io è quello che tu sei, non quello che hanno fatto di te”, la frase di Paulo Coelho é un inno a volersi riappropriare della parte più vera, più essenziale di ciascuno di noi. Quell’energia vitale, che può svilupparsi, crescere fino a diventare “un falò” o può ridursi, diventare appena evidente, o trasformarsi in brace, sotto una coltre di cenere, pronta a riprendere vigore, o peggio che mai, a spegnersi definitivamente. E’ la fiamma della nostra più vera essenza, è quella che ci rende unici, rispetto al resto del mondo e che ci spinge a realizzarci. Ogni qualvolta seguiamo la nostra natura cresce, mentre se qualcuno o qualcosa ci fa deviare dal “nostro” cammino, si blocca o può atrofizzarsi, fino a spegnersi del tutto. E’ qualcosa che sentiamo evidente, quando riusciamo a realizzare un sogno, quando raggiungiamo un obiettivo primario; il senso pieno della soddisfazione, dell’appagamento ce la fa sentire viva dentro di noi. E’ quello stato benefico che ci spinge ad andare avanti, a trovare nuove mete e a raggiungere traguardi più alti.
I condizionamenti subiti, più o meno evidenti, più o meno sottili, lasciano una traccia indelebile: genitori che impongono un modello di vita, mete, ambizioni che il figlio non condivide, non sente proprie, ma a cui finisce per cedere; insegnanti che non valorizzano la ricchezza della diversità di ciascun alunno, ma, al contrario, pretendono allievi “modello”, secondo il loro “modello”, penalizzando l’errore, invece di utilizzarlo per far capire come meglio bisogna procedere. Si fa pesare il fallimento, l’insuccesso. Ma il fallimento è tale solo se non lo si considera un risultato, anche se negativo e distante dai propri desideri. Il termine risultato invita a guardarsi indietro, a scoprire un metodo più efficace per arrivare alla meta con meno difficoltà e più soddisfazione.
Ma anche un partner può contribuire a sminuire, a far deviare l’amato o l’amata che non corrisponde alle sue aspettative, cercando di riportarlo sulla (sua) retta via. Stesso discorso vale per un capo sul lavoro. L’effetto di questo bombardamento contro corrente è visibile dall’esterno, la persona diventa insicura, non sa più qual è la sua strada, mette in dubbio i suoi obiettivi, cade nella rete dei condizionamenti, diventa incerta e, paradossalmente, finisce per affidarsi proprio a chi sembra tanto certo di come va gestito il suo futuro. In altre parole si perde di vista e crolla l’autostima.
Che fare? Come sempre non ci sono ricette valide per tutti, ognuno ha il diritto di trovare la propria, attraverso quegli ingredienti soggettivi e particolari, sapientemente calibrati, che consentono di recuperare piano piano il piacere di guardarsi dentro e di dire con soddisfazione: ok, ci siamo, sono sulla buona strada.
Cominciamo a riconoscerci, a dare valore alla nostra diversità, unicità, originalità: chiamiamo come vogliamo il nucleo più autentico che appartiene solo a noi. A volte, può essere utile cominciare ad essere tolleranti verso se stessi, a voler bene anche ai propri difetti, o ai cosiddetti limiti. E’ un punto di partenza.
Se è vero che è giusto crescere, migliorarsi, andare avanti, allora cominciamo a soffiare sulla cenere, scoviamo le scintille da alimentare, rivitalizziamo fiammelle deboli, facciamo esplodere nuovamente la voglia di vivere e di seguire la strada che ci appartiene di diritto.
Giovanna Giuffredi